La Storia

Brevi cenni di storia e archeologia di Sorbo di Tagliacozzo

SORBO

Sorbo è una piccola frazione del Comune di Tagliacozzo (AQ), all’interno della Marsica. Posto a 825 m sul livello del mare, lungo il crinale occidentale del monte San Nicola, si trova a circa 7,5 km a Est di Tagliacozzo e a meno di 3 km da Scurcola Marsicana.

NOME

Il nome deriva da un albero da frutto, il sorbo (Sorbus domestica), che ancora oggi caratterizza il paesaggio arboricolo del paese. Diffuso nei luoghi rocciosi e montani; il caratteristico frutto, un piccolo pomo dal diametro di pochi centimetri, diventa commestibile solo in uno stato avanzato di maturazione quando assume una tonalità che varia dal rosso all’arancio

STORIA

Le prime testimonianze di frequentazione dell’area possono riferirsi alla prima età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.) quando sulla sommità del monte San Nicola si va ad impiantare un centro fortificato apicale con piccolo recinto ovoidale che cingeva una superficie di circa 1 ettaro; ancora oggi è possibile osservare in situ gli scarni resti delle mura poligonali.

La posizione del luogo permetteva di controllare non soltanto la fertile pianura palentina che si sviluppava a Sud-Est ma anche gli accessi di fondovalle che potevano correre lungo le pendici Sud-occidentali e Nord-occidentali del monte. È evidente quindi, come la posizione strategica possa spiegare il perché più di mille anni dopo, in età medievale, le strutture fossero reimpiegate in un castello-recinto.

La vita della fortificazione italica con due successivi ampliamenti del recinto si spinse sino alle soglie della conquista romana.

Giorgio Lusco

EQUI

Prima della conquista romana l’area era occupata dagli Equi, un’antica popolazione italica, che si estendeva fra l’odierno Cicolano, la pianura carseolana e i Piani Palentini: proprio qui, tra Villa San Sebastiano e Cappelle si può porre il limite fra la regione controllata dagli Equi (a Nord-Ovest) da quella abitata da un’altra popolazione italica, i Marsi, il cui territorio si sviluppava fino al Fucino.L’interesse dei Romani per questa regione si può comprendere nel quadro delle operazione belliche di conquista delle aree interne del centro Italia tra la fine della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) e la terza guerra sannitica (298-290 a.C.). L’arrivo dei Romani non fu indolore per gli Equi. Lo storico latino Livio ci ha delineato un vivido quadro di tutti quegli eventi: “Durante il consolato di Publio Sulpicio Saverrione e di Publio Sempronio Sofro [304 a.C.], i Sanniti - nel desiderio di porre fine alla guerra o di ottenere una tregua - inviarono a Roma ambasciatori per discutere la pace. Alle loro suppliche venne replicato che, se i Sanniti non avessero di frequente richiesto la pace continuando in realtà a preparare la guerra, si sarebbe potuto stipulare un trattato di pace con una semplice discussione tra le due parti in causa.

Ma ora che le parole a tale riguardo si erano dimostrate vane, era necessario starsene ai fatti. Il console Publio Sempronio si sarebbe recato di lì a poco nel Sannio con un esercito, e non gli sarebbe certo potuto sfuggire che intenzioni avessero i Sanniti, se bellicose o pacifiche. Chiarito ogni aspetto, avrebbe riferito al senato. Che quindi i delegati seguissero il console al suo rientro dal Sannio. Quell'anno, poiché un esercito romano che l'aveva percorso in lungo e in largo aveva trovato il Sannio in condizioni pacifiche ed era stato generosamente rifornito dalle genti del posto, ai Sanniti venne di nuovo concesso il trattato di pace di una volta. Le armi di Roma si rivolsero poi contro gli Equi, antichi nemici, che per anni non avevano dato fastidi, sotto le apparenze di una pace di cui non ci si poteva fidare, ma che prima della disfatta inflitta agli Ernici avevano con questi ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la sottomissione degli Ernici erano passati quasi in massa dalla parte del nemico senza che venisse nascosta l'ufficialità di tale decisione. E quando poi - conclusa a Roma la pace coi Sanniti - erano arrivati i feziali a chiedere soddisfazione, gli Equi avevano sostenuto trattarsi di una manovra fatta dai Romani per convincerli ad accettare la cittadinanza romana forzandoli con lo spauracchio di una guerra. Ma quanto la cosa fosse desiderabile, erano stati loro Ernici a mostrarlo, scegliendo, quando ne venne data l'opportunità, le proprie leggi in luogo della cittadinanza romana. Quanti invece non avevano avuto l'opportunità di scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado accettare la cittadinanza romana come un castigo. Siccome i discorsi che si tenevano nelle assemblee erano in genere di questo tenore, il popolo romano ordinò di fare guerra agli Equi. E i due consoli, partiti alla volta del nuovo conflitto, si attestarono a quattro miglia dal campo nemico. L'esercito degli Equi, che non combattevano più guerre per conto proprio da moltissimi anni, costituito com'era da truppe raccogliticce, prive di comandanti e di precise autorità interne, era in grave affanno. E mentre alcuni proponevano di uscire allo scoperto e altri di difendere l'accampamento, la maggior parte fremeva al pensiero delle campagne devastate e delle città distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni armate. E così, quando tra le molte proposte se ne sentì una che lasciava da parte la causa comune invitando i singoli a preoccuparsi del proprio interesse particolare (e cioè a uscire, col calar della notte, dall'accampamento e portar via ogni cosa, rientrando nelle rispettive città per mettersi al riparo delle mura), venne accolta da un grande applauso collettivo. Quando i nemici si erano già sparsi per le campagne, all'alba i Romani si schierarono in ordine di battaglia. Ma dato che nessuno si faceva avanti, si diressero sùbito verso l'accampamento nemico. Quando videro che lì non c'erano sentinelle alle porte né gente di guardia dietro la trincea, e che non si sentiva il brusio tipico degli accampamenti, preoccupati da quel silenzio anomalo si fermarono per paura di finire in un'imboscata..

Scavalcata poi la trincea e avendo trovato tutto deserto, cercarono di mettersi sulle tracce dei nemici. Ma le orme che portavano in tutte le direzioni (come sempre succede nel corso delle ritirate inconsulte), in un primo tempo sviarono i Romani. Quando poi vennero a sapere da informatori le vere intenzioni dei nemici, cominciarono ad attaccare le città una dopo l'altra. In cinquanta giorni ne espugnarono trentuno fortificate, la maggior parte delle quali venne rasa al suolo e data alle fiamme, mentre quasi l'intera etnia degli Equi andò distrutta.


Per il successo sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il loro annientamento servì da esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e ai Frentani, che inviarono a Roma delegati per chiedere pace e amicizia. E a questi popoli che ne facevano richiesta venne concesso un trattato di alleanza” (Tito Livio, Ab Urbe Condita, IX, 45).

La conquista subìta dagli Equi fu rapida e distruttiva. Il distretto abruzzese del territorio equo venne acquisito da Roma come bottino e militarizzato con la fondazione nel 303 a.C. della colonia latina di Alba Fucens e l’invio di 6000 coloni.

Nonostante la pesante sconfitta, gli Equi tentarono di osteggiare le operazioni deduzione coloniale:

“Durante il consolato di Marco Livio Dentre e di Marco Emilio [302 a.C.] riprese la guerra contro gli Equi. Poiché non accettavano la colonia romana, quasi una roccaforte di Roma all'interno del loro territorio, gli Equi tentarono con ogni mezzo di espugnarla, venendo però respinti dai coloni stessi. Ma a Roma la cosa creò una tale apprensione - sembrava impossibile che gli Equi, nel loro misero stato, avessero affrontato la guerra basandosi soltanto sulle proprie forze -, che per far fronte a quell'insurrezione venne nominato dittatore Gaio Giunio Bubulco. Questi, partito col maestro di cavalleria Marco Titinio, al primo scontro ebbe la meglio sugli Equi e, rientrato a Roma in trionfo dopo otto giorni, inaugurò come dittatore il tempio alla Salute che aveva promesso in voto quand'era console e la cui costruzione aveva dato in appalto al tempo della sua censura” (Tito Livio, Ab Urbe Condita, X, 1, 7-10).

Cessata in modo definitivo qualsiasi velleità equa, Roma dovette fronteggiare ben presto la resistenza del popolo marso che dovette sentirsi minacciato sia dalla presenza della colonia latina di Alba sia di quella di Carseoli nella valle del Turano. Ne seguì un conflitto, rapidamente risolto a favore dei Romani che determinò per i Marsi la perdita delle terre più fertili: i Piani Palentini e la regione orientale del lago del Fucino furono assegnati alla colonia albense, mentre l’alta valle Roveto e l’alto Liri rientrarono sotto il controllo di Sora, altra fondazione coloniale romana.

Con il III secolo a.C. si avviava un periodo di sostanziale pace per questa regione prima degli eventi che porteranno nel I secolo a.C. alla guerra sociale italica.

La presenza di Alba Fucens, la centuriazione agraria dell’ager Albensis e la presenza della via Valeria, realizzata per collegare la colonia con Roma sul finire del IV secolo a.C., segnarono di fatto e profondamente tutto il territorio. Sorsero nella pianura e in collina piccoli villaggi sparsi privi di fortificazioni (vici) e si svilupparono sempre più le ville rustiche: ha inizio quel processo di romanizzazione che si rifletteva non soltanto nel paesaggio ma anche nella cultura materiale delle popolazioni che lo abitavano.

Giorgio Lusco

CIPPO FUNERARIO

Alcuni segni di questa romanizzazione si sono conservati nelle immediate adiacenze di Sorbo. Nella piazza del paese, alla destra della chiesa, è possibile osservare una non fedelissima copia di una stele funeraria della prima età imperiale (I-II secolo d.C.), il cui originale è conservato oggi nell’atrio del Comune di Tagliacozzo.

La stele fu rinvenuta il 16 marzo 1826 dal sig. Giovanni Angelo Salvatore durante alcuni lavori di scasso di un terreno; l’epigrafe (CIL IX, 3952) recita:

D(is) M(anibus) S(acrum)

T(itus) Tituleius

S(uccessus)

sevir aug(ustales)

sibi et

Sextuleiae

M(arci) f(iliae) Secundae

coniugi b(ene) m(erenti)

p(osuit)

(traduzione italiana) “Sacro agli dei Mani. Tito Tituleio Successo, seviro augustale, per sé e per Sestuleia Seconda, figlia di Marco, moglie benemerita, pose”.

Al di sopra del campo epigrafico compare una tipica formula pagana di dedica ai numi tutelari dell’oltretomba, i Mani, ai quali veniva consacrato il monumento funebre: in antichità era molto sentito il problema di violazione del sepolcro.

L’iscrizione continua con il nome del committente e dedicante, Tito Tituleio Successo: benché l’onomastica latina di un uomo libero sia completa con la menzione del prenomen, nomen e cognomen, è peculiare l’assenza del patronimico (formula abbreviata con l’indicazione del nome del padre) e dell’indicazione della tribus (una delle 35 unità amministrative-territoriali in cui erano suddivisi tutti i cittadini romani maschi per il censo, la tassazione e la leva militare; nel territorio di Alba Fucens la tribù era la Fabia). L’assenza di questi elementi può essere un forte indizio di un’origine libertina del committente: un liberto, uno schiavo che ha ottenuto la libertà dal suo padrone assumendone il nomen. Spesso nelle loro epigrafi i liberti volutamente omettevano, in quanto sconveniente, la formula di patronato (una formula abbreviata simile al patronimico che indicava non il nome del padre bensì il nome del padrone).

Segue la menzione della carica onorifica svolta in vita: il sevirato augustale. Creato a partire da Augusto era composto generalmente da sei membri, eletti annualmente dal “senato” locale (ordo decurionum) fra gli ingenui (nati liberi) o fra ricchi liberti con il compito di celebrare la figura dell’imperatore, indire giochi, spettacoli ecc. Prevedeva un certo impegno economico nell’assolvere le funzioni e benché priva di un effettivo potere era pur sempre una carica socialmente distintiva nel modesto ambiente municipale.

Nell’ultima parte dell’epigrafe si rende evidente il motivo dell’esecuzione della stele: la realizzazione di un monumento funebre per il seviro e per la moglie Sestuleia Secunda. Nel mondo antico era forte la preoccupazione di procurarsi ancora in vita un luogo che accogliesse le proprie spoglie.

Il monumento possiede un modesto apparato decorativo. La stele è sormontata da una decorazione a pulvini nella cui parte centrale campeggia un motivo solare. Lungo il lato sinistro invece, a rilievo, sono uno specchio, uno spillone e due ampolle, mentre sul lato destro sono due calzature e una piccola cesta.

Nonostante nella copia venga indicato come cenotafio (tomba senza il defunto), in origine vicino e sotto la stele si sarebbero potuto trovare le urne cinerarie con le ceneri dei due defunti.

Affinché il monumento funebre potesse svolgere oltre la volontà di perpetuare il ricordo nella memoria dei vivi anche una funzione celebrativa del livello sociale raggiunto in vita dal defunto era consuetudine dei Romani porre i propri morti lungo gli assi stradali. È proprio lungo una di queste strade che si sarebbe potuta trovare anticamente la stele.

Giorgio Lusco

PIETRA MILIARIA

A rafforzare tale ipotesi è l’esistenza di un miliario romano (una pietra che recava la distanza da Roma o da un’altra grande città) rinvenuto a circa 800 m da Sorbo in direzione di Scurcola, così descritta dall’architetto Promis nella prima metà dell’Ottocento:

“Mezzo miglio dopo questo villaggio [Sorbo] la Valeria è sostrutta a dritta da un lungo muro poligonio composto principalmente di massi a base trapezia, e pochi passi dopo è a sinistra una fontana la cui vasca è un sarcofago ornato di festoni e bucrani. La strada è ingombra dei sassi del pavimento, e dopo mezzo miglio è a sinistra atterrata una colonna milliaria, della quale non si può leggere l’iscrizione per trovarsi contro terra.” (Carlo Promis, Le antichità di Albe Fucens negli Equi, Roma, 1836, p. 60).

Il miliario in questione recava questa iscrizione (CIL IX, 5969):

XLVIII

Imp (erator) Nerva

Caesar Augustus

pontifex maximus

tribunicia potestate,

co(n)s(ul) IIII

pater patriae

faciendam curavit

(traduzione italiana) “48° miglio. Imperatore Nerva Cesare Augusto, pontefice massimo, con potestà tribunizia, console per la quarta volta, padre della patria curò che venisse fatta (la strada)”.

Il miliario faceva riferimento al 48° miglio di una strada la cui risistemazione è da attribuire all’opera dell’imperatore Marco Cocceio Nerva. Il suo brevissimo impero (dal 18 settembre 96 al 27 gennaio 98 d.C.) permette di circoscrivere l’ambito cronologico al 97. Benché le titolature imperiali possano fornire un’indicazione temporale più precisa, queste entrano in disaccordo fra loro, in quanto la prima tribunicia potestas si pone tra il 18/19 settembre 96 e il 17/18 settembre 97, mentre il quarto consolato gli venne tributato soltanto nel gennaio 98. Che fosse un errore del lapicida o più probabilmente un errore di lettura e trascrizione poco importa, più importante è comprendere a quale asse stradale faccia riferimento.

La parte anepigrafe del miliario, simbolo dell’associazione Pro Loco Sorbo, presente davanti la chiesa nella piazza, la quale prende appunto da esso il nome di “Milliaria”, riporta l’attribuzione alla via Valeria. Se si esclude l’argomentazione priva di fondamento del Promis che affermava che il miliario in questione appartenesse originariamente alla via Valeria di Colli di Monte Bove, trasportato poi per ignoti motivi nelle adiacenze di Sorbo, l’identificazione con la via Valeria è da ritenersi erronea in quanto la distanza di 48 miglia, circa 71 km, dalla città di Roma è troppo esigua. È più probabile che possa appartenere a una strada secondaria, che collegandosi alla Valeria che passava per Scurcola risaliva in direzione Nord-Ovest verso la Val dei Varri, giungendo forse alla città di Reate (Rieti). Tracce indirette della presenza di una strada si possono riscontrare in alcuni filari di un muro di terrazzamento in opera poligonale che ancora si conservano per più di mezzo chilometro lungo la pendice del monte San Nicola al di sotto della strada asfaltata che oggi collega Sorbo con Scurcola nel suo tratto finale.

Giorgio Lusco

BIBLIOGRAFIA

M. Buonocore, Un nuovo miliario dalla via Valeria in territorio equo, in Antichità Classica, 50, pp. 272-283, Roma.

I. Calabi Limentani, Epigrafia Latina, Bologna 1997.

CIL IX – T. Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum. IX. Inscriptiones Calabriae Apuliae Samnii Piceni Latinae, 1863.

G. Grossi, R. Colapietra, F. D’Amore, Scurcola Marsicana. Historia, Scurcola 2005.

T. Livio, Ab Urbe Condita.

C. Promis, Le antichità di Alba Fucens negli Equi, Roma 1836.

S. Zenodocchio, Antica viabilità in Abruzzo, L’Aquila 2008.